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La parola all’esperto - Almanacco del CNR

Articolo redatto dal Dott. Claudio Zmarich – Primo Ricercatore all’ISTC-CNR, fonetista esperto di balbuzie e sviluppo fonetico e fonologico, nostro socio – pubblicato sull’Almanacco del CNR.

Considerazioni sulla balbuzie

Nyborg (Danimarca): 3° Congresso Mondiale dell’IFA. Claudio Zmarich, Hugo Gregory, Luisella Cocco, Carolyn Gregory e Piero D’Erasmo
Nyborg (Danimarca):
3° Congresso Mondiale dell’IFA.
Claudio Zmarich, Hugo Gregory, Luisella Cocco,
Carolyn Gregory e Piero D’Erasmo

Secondo l’organizzazione mondiale della sanità, “la balbuzie è un disordine nel ritmo della parola, nel quale il paziente sa con precisione ciò che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono che hanno carattere di involontarietà” (O.M.S., 1977: trad. a c. dello scrivente). Già a partire da questa definizione si possono incominciare a sfatare i molti luoghi comuni che esistono sulla balbuzie, non solo nell’uomo di strada ma anche in molti degli operatori che entrano in contatto con il balbuziente. Di solito si è portati a credere che la balbuzie sia causata da un disagio psicologico, causato da eventi traumatici e/o da ambienti educativi inadeguati che hanno segnato indelebilmente la personalità del soggetto, e che lo renderebbero timido, poco pratico, incline a demoralizzarsi, e forse anche meno dotato dal punto di vista intellettivo. Siamo inclini a queste credenze perché la nostra esperienza di parlanti ci porta a considerare il linguaggio in modo acritico come l’esecutore fedele e automatico dei nostri pensieri (cfr. il detto comune “se si hanno idee, le parole seguono…”), e l’esperienza personale ci porta a credere che i momenti in cui parliamo peggio, cioè in modo esitante o confuso, siano dovuti a momentanee carenze della nostra salute, fisica o mentale. Interpretando così la balbuzie alla luce della nostra esperienza ci sfugge però quel carattere d’involontarietà che differenzia radicalmente i nostri errori linguistici dalle ripetizioni e i prolungamenti (cioè le cosiddette disfluenze) che caratterizzano il parlato del balbuziente: infatti, anche quando egli sa esattamente cosa vuole dire semplicemente non è in grado di dirlo, perchè ha perso il controllo dei suoi articolatori: pensiamo al caso di un balbuziente che non riesce a dire il suo nome. I suoi problemi sono insomma eminentemente di ordine motorio, e i problemi psicologici, quando presenti, si instaurano di conseguenza come reazione e/o adattamento a una lunga serie di fallimenti comunicativi.

La situazione odierna della ricerca internazionale, e cioè soprattutto statunitense, sulla balbuzie, annovera una massa enorme e continuamente crescente di risultati sperimentali (l’ultima edizione del fondamentale manuale di O. Bloodstein, A handbook on Stuttering, National Easter Seal Society, Chicago, 1995, annovera oltre 100 pagine di bibliografia) che aiutano a descrivere meglio il disordine ma che ancora non lo spiegano, né tantomeno aiutano a predirlo e controllarlo. L’ignoranza teorica sulle cause che generano e mantengono la balbuzie si riflette sul trattamento terapeutico: le molte terapie che vengono somministrate ai balbuzienti, non potendo intervenire sulle cause, quasi sempre si limitano ad intervenire sui sintomi, e vengono perpetuate in base alla considerazione pratica che in qualche modo “funzionano”.

Fatte queste premesse, esponiamo alcuni dati sperimentali ben conosciuti e universalmente accettati. Se le cause ultime restano ancora sconosciute, le conseguenze della balbuzie possono compromettere la comunicazione linguistica a tre livelli (applichiamo l’International Classification of Imparments, Disabilities and Handicaps, WHO, 1993):

  • Menomazione, da identificare nella disfluenza, causata da deficits o disfunzioni (ancora sconosciuti) dei sistemi motorio e sensorio alla base della produzione verbale.
  • Disabilità, da attribuire a eventi percettivi e fisici associati alla disfluenza, che coinvolgono anche sistemi somatici non direttamente partecipanti alla produzione verbale.
  • Handicap, risultante dagli effetti negativi prodotti dalla disabilità sulla capacità individuale di comunicare verbalmente in modo normale e che condizionano lo sviluppo personale, l’esperienza educativa, la scelta professionale e la funzione sociale.

La balbuzie, in un un qualsiasi preciso istante temporale, interessa circa l’1% della popolazione mondiale (tasso di prevalenza), ma circa il 5% può dire di averne sofferto in qualche misura nel corso della sua vita (tasso d’incidenza). La differenza tra i due tassi è spiegabile con l’alta percentuale di remissione, circa il 75-80%, che avviene per lo più spontaneamente dai 12 ai 18 mesi di distanza dal momento dell’insorgenza, e che è da collocare tipicamente nella prima infanzia. Per il 75 % dei soggetti colpiti da balbuzie l’insorgenza si situa dai 18 ai 41 mesi, quando le abilità linguistiche, cognitive e motorie del bambino sono interessate da un rapido processo di maturazione e sviluppo, l’età media d’insorgenza è di 32 mesi e vi è una scomparsa virtuale di nuovi casi dopo i 12 anni. Le ricerche di tipo genetico basate sugli antecedenti famigliari e sulla gemellarità monozigote fanno ritenere che la balbuzie venga trasmessa per via genetica, e anche se il meccanismo di trasmissione resta sconosciuto, il tipo di legame parentale e il sesso contribuiscono a determinare le probabilità che un bambino cominci a balbettare e forse anche quelle del suo recupero.

Il bambino balbuziente borderline si distingue dal suo coetaneo non balbuziente per le seguenti caratteristiche: commette più di 10 disfluenze ogni 100 parole, queste disfluenze sono in maggior parte ripetizioni e/o prolungamenti di foni, nelle ripetizioni spesso ripete più di due 2 volte la stessa unità. Quando queste disfluenze sono prodotte con durate irregolari, con segni di tensione muscolare, e sono accompagnate da comportamenti di evitamento o fuga e dalla consapevolezza di difficoltà e sentimenti di frustrazione, allora il bambino si avvia a diventare balbuziente conclamato.

È importante saper riconoscere questi sintomi in tempo, poiché la ricerca ha stabilito che la prognosi è tanto migliore quanto è minore l’intervallo temporale che separa l’insorgenza della balbuzie dal primo intervento terapeutico (che con particolari modalità può essere eseguito anche in età molto precoce), anche perché ad aspettare troppo si rischia che la balbuzie si consolidi a tal punto da diventare refrattaria a qualsiasi intervento terapeutico.

Ogni tanto appaiono con clamore sulla stampa non specializzata notizie di ricercatori che per la prima volta avrebbero scoperto la sede cerebrale della balbuzie. Bisogna precisare che a tutto il 2001 sono stati pubblicati almeno 15 studi di brain imaging condotti da 7 equipe diverse che hanno applicato le tecnologie SPECT e PET a oltre 65 soggetti balbuzienti e oltre 121 nonbalbuzienti, quando i soggetti balbettavano, parlavano senza balbettare, erano in condizioni di riposo, oppure prima e dopo l’intervento terapeutico. I risultati di questi studi evidenziano che i processi cerebrali relativi alla produzione del parlato (di tipo semantico, sintattico, fonologico e articolatorio) sono fortemente compromessi nel parlato disfluente e fluente del balbuziente, mentre è ancora controverso se i balbuzienti siano diversi dai normoparlanti anche in condizioni di riposo. Quasi tutti gli studi mostrano anomalie nell’attivazione di alcune regioni cerebrali (per es. la corteccia prefrontale e frontale) e del cervelletto, e tutti hanno riportato differenze tra i balbuzienti e i controlli per la lateralizzazione cerebrale (nei balbuzienti l’emisfero destro è più attivo rispetto ai non balbuzienti). Purtroppo queste ed altre tecnologie diagnostiche per immagini, quali i potenziali evocati, l’ettroencefalografia quantitativa, la risonanza magnetica nucleare di tipo funzionale, possono evidenziare le aree coinvolte nella produzione del parlato, ma non ci informano sul tipo di processo che avviene, e sono molto limitate dal fatto che non possono essere applicate ai bambini piccoli. Per questo motivo bisogna rifarsi a un modello dettagliato della produzione del parlato come uno di quelli elaborati nelle ricerche di neuropsicologi, psicolinguisti e studiosi di fonetica. Tali modelli si prefiggono di individuare le unità di elaborazione, di esplicitare la rappresentazione mentale dell’informazione linguistica e mettere in rilievo i processi di elaborazione di tali informazioni (selezione, richiamo, controllo e correzione ecc.).

Come dimostrano i casi di insorgenza di balbuzie nei bambini in terapia per un ritardo di linguaggio, ed il fatto parallelo di insorgenza di balbuzie in bambini troppo stimolati dal punto di vista linguistico dai loro genitori, ci sono situazioni educative dove alti livelli di stimolazione indiretta (per es., genitori che parlano in modo molto elaborato e/o a grande velocità) o diretta, (per es. richieste esplicite) verso un livello di eccellenza linguistica possono portare un bambino alla balbuzie. Ad es. il bambino tenderà a ricorrere ad enunciati sempre più lunghi e complessi, che richiedono non solo una maggior capacità di pianificazione sintattica e semantica, ma anche una programmazione motoria più gravosa, ed un’esecuzione articolatoria più complessa. Questa concomitanza di sollecitazioni di tipo linguistico e motorio può portare ad interferenze reciproche. Ma i dominii linguistici e motorii possono interferire l’un l’altro anche quando, nel corso dello sviluppo, si crea uno sbilanciamento qualitativo tra competenza linguistica, abilità psicolinguistiche ed esecuzione motoria. Così, se un bambino non balbuziente con vasto vocabolario e buona conoscenza delle forme sintattiche probabilmente sviluppa una corrispondente abilità nell’accedere al lessico, può darsi che un bambino balbuziente ugualmente dotato dal punto di vista delle conoscenze lessicali e sintattiche legittimi nei suoi genitori delle aspettative che non possono essere soddisfatte, perché lo stesso bambino può non essere altrettanto abile nella selezione e/o nell’assemblaggio delle forme lessicali. D’altra parte potrebbe anche darsi il caso di un bambino balbuziente che possieda, rispetto ai coetanei, una grande competenza lessicale e sintattica e un’efficiente abilità psicolinguistica, ma trovi particolarmente difficile realizzare dal punto di vista motorio enunciati complessi composti dalle parole lunghe e complicate che conosce e vorrebbe usare.

Per quanto riguarda l’intervento terapeutico, esso contempla almeno quattro fasi.

Si comincia con la valutazione, finalizzata alla diagnosi e alla classificazione di gravità, all’identificazione delle condizioni che mantengono o esacerbano il disordine, e alla definizione della misura in cui il balbuziente ricorre a condotte di evitamento o fuga dalle situazioni temute, e della presenza di prerequisiti al trattamento quali la maturità e sensibilità del soggetto, la risposta che dà alle diverse tecniche d’instaurazione della fluenza, la sua reale motivazione e disponibilità al cambiamento e l’eventuale appoggio della famiglia.

La seconda fase concerne l’instaurazione dell’effetto terapeutico, e il terapista deve essere in grado di padroneggiare un buon numero di tecniche, al fine di poter scegliere quella più adatta al disordine del paziente e alla sua personalità. Tradizionalmente si contrappongono almeno due scuole di pensiero, quella basata sul “modellamento della fluenza”, e quella basata sul “balbettare più fluentemente”. Con la prima, preferita da logopedisti e psicologi d’impostazione comportamentista, il comportamento disfluente viene modificato manipolando le sue conseguenze, utilizzando tecniche esplicite e misurabili inserite in programmi di complessità crescente, allo scopo di pervenire ad un parlato libero da disfluenze. La seconda, più seguita dagli psicoterapeuti, ha come obiettivo di portare il balbuziente a conoscere meglio il suo disturbo riducendo le condotte di fuga e i sentimenti negativi ad esso associati. La fluenza “a tutti i costi” non rappresenta l’obiettivo principale e si tollera un livello minimo di balbuzie, se il balbuziente ci convive bene. È possibile comunque individuare alcuni obiettivi terapeutici minimi che riscuotono il consenso dei terapeuti di diverse scuole. Tra i primi obiettivi vi è la riduzione della frequenza degli episodi di balbuzie, e la riduzione della loro gravità e anormalità, senza però incrementare la frequenza di comportamenti che non fanno parte della normale attività verbale. Poi bisogna ridurre le cosiddette condotte di fuga e rimuovere, o ridurre, quei processi di apprendimento individuale che, nell’interazione comunicativa, possono generare, mantenere o esacerbare gli episodi di balbuzie. A questo riguardo, la terapia dovrebbe comprendere anche il counseling verso le persone che vivono con il balbuziente o che sono per lui significative. Il paziente poi deve essere aiutato a contrastare la sua naturale reticenza e ad aumentare la frequenza delle attività sociali.

La terza fase è quella definita di trasferimento: al paziente viene chiesto di “trasportare” gradualmente il suo nuovo comportamento verbale, appena appreso all’interno di un sistema protetto come quello clinico, nel “mondo reale” esterno della clinica.

Il mantenimento è la quarta e ultima fase, prevista al termine della terapia, per mettere in grado il paziente di contrastare con i propri mezzi la tendenza alla ricaduta. Solo quando il paziente riesce a conservare nel tempo i benefici del trattamento terapeutico si può affermare che lo stesso ha avuto successo.