Suckerfish

L’elisione (Giuseppe)

No, no… fermati. Rileggi tutto dall’inizio… hai saltato una parola…

Ovviamente se n’era accorta. Figurarsi. Quella era il tipo di professoressa che non si distrae: sempre attiva, presente, determinata. Già dalla prima lezione dichiarò il suo carattere deciso: era assolutamente sicura che sarebbe riuscita a farci parlare il francese in breve tempo, magari con l’uso della frusta. Con lei il controllo degli esercizi per casa divenne metodico come l’appello mattutino in caserma; l’interrogazione, una certezza; i compiti in classe, un cimento da concorso ministeriale.

Ritmava le attività della classe col piglio sobrio ed armonico del direttore d’orchestra, l’indice puntato a farle da bacchetta: tu, in piedi!; tu, alla lavagna!... non la finiva mai di distribuire ordini.

Il giorno in cui si rivolse a me in quel modo, notificandomi una distrazione nella lettura, non sapevo ancora che avrei finito per innamorarmene un po’ e che non la avrei mai dimenticata. Anzi, ero abbastanza terrorizzato dalla sua irruenza e dalla sua implacabile intransigenza.

Era uno dei primi giorni di scuola. Sul finire di una lezione e di una giornata priva di particolari patemi, si fece venire l’idea di farci leggere “a staffetta” un brano del libro di antologia. Naturalmente avrebbe indicato lei, a caso, il lettore di turno. Tanto bastò perché perdessi la testa. L’idea che quell’indice potesse all’improvviso puntare su di me, fece salire la mia tensione alle stelle: le mani cominciarono a farsi umide e bianche e l’impossibilità di stare fermo sulla sedia strideva con l’esigenza di tenere un profilo mimetico, così da non destare la sua attenzione.

Sono certo che tutti i ragazzi registrassero una sottile ansia nell’attesa di esser chiamati a leggere, perché in quella prima liceo eravamo tutti nuovi, ci si conosceva solo da pochi giorni e quella prestazione sarebbe stato il biglietto da visita con cui presentarsi agli altri e soprattutto alla professoressa.

Ma per me quella normale, leggera inquietudine condivisa si tramutava a grandi passi in panico: da un momento all’altro e con una facilità che quasi rasentava la beffa, tutti avrebbero potuto scoprire il mio tremendo segreto.

Gira e gira, il dito mi scovò. Mi sentii come un ladro sorpreso con la refurtiva sotto il cappotto. Cominciai a leggere; e mentre leggevo, chino sul libro, con la coda dell’occhio cercavo di spingere lo sguardo un poco più in avanti, a scrutare le parole che mi attendevano al varco, come ad annusarne in anticipo la difficoltà. Una di queste, tosta come poche, la trovai prima di quanto temessi, solidamente piantata in mezzo al rigo come un paracarro; spavalda nel suo atteggiamento di sfida.

Che fare? Ero certo che tentare di pronunciare quella parola avrebbe scatenato un blocco, un parossismo di balbuzie di quelli maiuscoli, dai quali è poi duro risalire la china della vergogna e della disperazione. E tutti, dopo l’indesiderata rappresentazione, come per magia, avrebbero avuto davanti una persona diversa da quella che avevano fino a quel momento conosciuto. Cosa avrebbero pensato di me? In un lampo la disperazione, non altro, mi indusse a tentare una sortita originale, mai messa in opera fino ad allora nella mia carriera di acrobata del linguaggio. Sì, avrei tentato l’elisione!

Così, arrivato al confine con la parola proibita, con ostentata disinvoltura… la saltai; feci finta che non esistesse, pagina. E come percorrendo un improvvisato ponte steso sopra un corso d’acqua turbolento, continuai con faticosa naturalezza a leggere il resto. Alla sua richiesta di ripartire daccapo, mi vidi perduto per la seconda volta. Ma non potevo cedere! Rilessi la frase, di nuovo saltando quel maligno paracarro, in una impossibile speranza di farla franca.

Niente da fare. L’invito a rileggere – e stavolta “per bene” – giunse perentorio ed immediato. C’eravamo. Oramai qualcosa di spiacevole sarebbe successo, aggravata dal clamore e dalla curiosità che quel mio strano comportamento stava suscitando nella classe. Ma infilarmi dentro il blocco era l’ultima cosa che desiderassi. Così ricominciai a leggere, dando l’impressione che stavolta avrei eseguito l’ordine; ma alla fine decisi di ammutinarmi: l’elisione trionfò! Alzai un poco gli occhi verso la cattedra.

L’indice della professoressa si era messo a roteare infuriato. Mentre osservavo ammirato il vortice che si disegnava nell’aria, si alzò dalla sedia pronunciando qualcosa di incomprensibile. E rincorrendo il dito proteso in avanti, che sembrava sfuggire al suo controllo, si diresse verso di me con passo di carica. Facendo cerchi sempre più piccoli quel dito venne a schiantarsi sul mio povero libro, schiacciando la parola elisa come fosse un moscerino.

“Devi leggere anche questa parola”, mi sibilò lentamente dentro l’orecchio, oramai fuori di sé. Dava le spalle ad un’ampia finestra da cui proveniva una intensa luce bianca che le riempiva i capelli rossicci facendone un’aureola; questi risplendevano così nitidi nel controluce che si sarebbero potuti contare uno ad uno. Ma non era il momento.

A quel punto tutti i riflettori puntavano su di me; la scena reclamava a gran voce il suo protagonista. I banchi sembravano spalti animati da spettatori eccitati, che in fretta cercavano la posizione più comoda e la visuale più chiara: lo spettacolo si avviava al suo intrigante epilogo.

Rassegnato, quasi tirando un incomprensibile sospiro di sollievo, mi consegnai mani e piedi al blocco. Chiudendo gli occhi, lasciai che labbra, denti, lingua e quanto altro serve a produrre suoni si aggrovigliasse in una morsa perfetta ed inestricabile.
In momenti come questi non tentavo nemmeno di reggere il timone: era inutile. Era come se una reazione chimica si fosse avviata; nulla avrebbe potuto interrompere il mio blocco, né uno sbattere di porte, né grida d’aiuto, né segnalazioni d’incendio: sarebbe finito quando doveva finire.

Appunto per questo, mentre fuori la tempesta montava, avevo acquisito l’abitudine di starmene rinserrato dentro me stesso, come dentro un’armatura d’acciaio.

E spesso, nell’attesa, mi ritrovavo a bighellonare, con un sacco di tempo libero a disposizione. Non era improbabile che mi sorprendessi a programmare gli impegni per il pomeriggio o a canticchiare un ritornello, a ripensare ad una discussione con un amico. Eppure il mio comportamento avrebbe potuto essere ben diverso, soccombere senza combattere non era un percorso obbligato. Ammettere lealmente il mio difetto, mostrarmi per quel che ero, senza cercare di occultare assurdamente lo scheletro in un armadio trasparente sarebbe stata la mossa più bella e dignitosa da giocare e in fondo la più utile. Ma questa eventualità, per quanto possa sembrare incredibile, in quel tempo non rientrava nel novero delle cose possibili. L’attività principale della mia giornata era al contrario nascondere, tentare di evitare anche a costo di sacrifici enormi e di rinunce gravi, contro ogni possibilità di successo, che qualcuno mi scoprisse con quella specie di marchio d’infamia tatuato sul braccio.

Il coraggio di manifestarsi senza veli sarebbe stato il frutto di lunghi anni di tirocinio e di maturazione. Una conquista lenta – e chissà quando definitiva – da nutrire ogni giorno con la convinzione d’essere il solo atteggiamento in grado di riscattare una vita di affanni.

Finalmente i suoni contorti sputati con l’ultimo fiato rimasto nei polmoni composero la parola mancante e potei andare avanti fino al punto. Fu allora che cercai di scrutare cosa avesse prodotto quel fuoco d’artificio. Il volto della professoressa era trasformato, pallido, incredulo. Per una volta la vidi incerta sul da farsi. Non aveva capito una disperata richiesta di aiuto. Farfugliò qualcosa del tipo... io non sapevo… non immaginavo… E la lasciò lì, senza concludere.

Anch’io masticai qualche sillaba, ma mi accorsi che le parole non avevano fiato sufficiente per dischiudersi. La campana dissolse d’incanto il pesante imbarazzo che ci teneva abbracciati. Svanì pure il silenzio irreale piombato nella classe. Sembrava che la vita avesse smesso di trattenere il fiato. Lei tornò alla cattedra a sistemare i suoi registri.

I ragazzi, fra rumori di sedie e di oggetti sbattuti sul banco, tendevano con forza le cinghiette di gomma per legare belli stretti libri e quaderni da riportare a casa. E cominciavano già a precipitarsi fuori dalla porta, ingaggiando la solita gara per uscire per primi.

Io, badando a schivare ogni attenzione, mi concentrai in una approfondita sistemazione della cartella. Quel pomeriggio avrei avuto di che leccar ferite nel chiuso della mia stanza. Ma non seppi resistere alla tentazione di allungare lo sguardo verso la porta, mente lei stava lasciando la classe. La vidi inaspettatamente stanca, provata e con le spalle un po’ curve. Aveva perso parecchio
della sua baldanza. Anche lei avrebbe avuto un pomeriggio per riflettere.
 

Giuseppe Di Guardo, Catania, Gennaio 2008