Intervista con Paolo Bonolis
«Ne ho sofferto per anni. E balbettavo parecchio. A scuola, nelle interrogazioni ci mettevo secoli a finire una frase. Dopo un po' l'insegnante, estenuato, mi chiedeva di rispondergli per iscritto».
«Sereno, mi trattavano con benevolenza. Frequentavo l'istituto dei Frères a Villa Flaminia, gestito da sacerdoti votati all'insegnamento, dove ho fatto anche le medie e le superiori. Ognuno di noi ha qualcosa che ci differenzia dagli altri, dicevano. Ci sono bambini che corrono veloci e altri che sono più lenti. Ho imparato a guardare ai miei impacci con serenità».
«Si sa, sono i bambini a essere più cattivi sui difetti degli altri perché li usano per affermare le loro qualità. Ma non mi prendevano in giro perché balbettavo. Mi chiamavano "Pinocchietto" per via del mio naso».
«Con il sorriso sulle labbra. Non mi facevano sentire un menomato, non mi hanno fatto diventare un complessato. Papà usava sempre una cinica ironia, una specie di amore distaccato: "che 'te devo fa', se caschi ti rialzi", ripeteva quando mi vedeva in difficoltà. Così ho imparato ad arrangiarmi e a non scoraggiarmi».
«Casualmente. Avevo dodici anni quando decisi di far parte del gruppo teatrale della scuola. L’idea mi allettava: finalmente insieme alle ragazzine, perché in classe eravamo solo maschi. Recitando mi sono accorto che non balbettavo quando dicevo la mia battuta. Ne parlai con i due registi della compagnia, Renato d'Archino e Lello Magrello. Mi dissero che secondo loro si trattava di un pasticcio psicologico: era come se volessi far uscire tutti i pensieri in una volta. Si creava quindi un ingorgo che mi portava a balbettare. Pensai che era proprio così».
«Ho cominciato a fare degli esercizi per imparare a dare spazio sonoro a un pensiero alla volta. Una sorta di autocontrollo mentale. Nel giro di un anno è diventato un automatismo».
«Mi succede ancora quando vado al mare: chissà forse la salsedine inceppa gli ingranaggi».
A. Mu., dal quotidiano “Avvenire”